Le montagne parlano. Non sempre a voce alta o in una lingua che si comprende subito. Occorre sedersi, ascoltare, lasciarsi attraversare dal silenzio. E poi, ecco, arrivano le storie, le voci, i segreti. È esattamente quello che succede leggendo Pietra Dolce, il secondo romanzo di Valeria Tron, ambientato nella sua Val Germanasca.
Stretta fra le montagne della Val Chisone e della Val Pellice, la Val Germanasca è una delle valli valdesi del Piemonte. Un territorio minuscolo sulla carta, ma grande nel custodire memoria, cultura e bellezza. È una valle viva, dove le attività del passato – la coltivazione, l’allevamento, la lavorazione artigianale, l’estrazione del talco – convivono con una rete di musei, sentieri e miniere visitabili. Un luogo che non si è dimenticato di sé stesso.
Ed è proprio da questa terra che nasce la voce di Valeria Tron: illustratrice, artigiana del legno, cantautrice, e ormai anche scrittrice riconosciuta – già candidata al Premio Strega nel 2023 con il suo romanzo d’esordio L’equilibrio delle lucciole.
In Pietra Dolce la scrittura si fa radice e racconto. Si incolla alla montagna, la tocca con rispetto e la ascolta. Il protagonista di questa storia si chiama Lisse. Non Ulisse, attenzione. Manca la “U”, quella lettera pesante “come una gerla”, che forse avrebbe caricato sulle spalle del bambino una zavorra troppo grande. Lisse nasce in un prato e viene abbandonato subito dopo il parto. Ma il destino – o forse sarebbe meglio dire la valle – non lo lascia solo: viene accolto da tre madri.
Il bosco si è inghiottito una madre. Il prato apparecchia un figlio.
La prima è una capra, Beretta, che lo trova e lo nutre. Un’immagine potente e dolcissima che apre il romanzo come una carezza. Poi c’è Ghit, una malgara anziana e solitaria, che si prende cura di lui senza esitazione. E infine Denise, giovane donna piena di insicurezze, che lentamente scopre la forza della cura. Attorno a Lisse crescono altri personaggi, vivi e concreti come la terra che calpestano: Mina, Giosuè, Lumière, Tedesc, Alma.
Il solo fatto di respirare, non significa esistere. Bisogna che qualcuno ti riconosca, ti dia un posto, un nome. Abbiamo bisogno degli altri per esistere. Lisse ha ancora bisogno di noi.
La narrazione si muove su due piani temporali: il passato – l’infanzia di Lisse e la sua vita nella valle – e un presente ambientato nel 2016. Due fili narrativi che all’inizio sembrano distanti, ma che lentamente si intrecciano, si avvicinano, si spiegano a vicenda. Non c’è frattura tra ciò che è stato e ciò che è. La montagna, come la memoria, è fatta di strati. E Valeria Tron li scava con delicatezza.
In fondo, questo sanno fare i libri: liberare qualcosa, qualsiasi cosa, e poi infilarla nell’inchiostro per chi arriverà.
La scrittura mescola parole semplici a termini più ricercati, inserisce espressioni in patois (il dialetto occitano parlato nella valle), senza mai suonare artificiosa. Il risultato è una lingua viva, sensibile, artigianale. Come se fosse stata scolpita nel legno o cucita a mano, con cura.
E questa lingua dà vita a una comunità montanara che è famiglia, che accoglie chi ha bisogno, che sa offrire un piatto di minestra e una parola buona. Una comunità che conosce la fatica della miniera e la bellezza delle piccole cose.
Pietra Dolce è un romanzo che ha qualcosa della favola – per come si lascia attraversare dalla magia, dalla natura, dalla tenerezza – ma non scivola mai nell’irreale. C’è verità in queste pagine. C’è la fatica, la solitudine, la solidarietà. C’è il ricordo dei minatori che lavoravano nelle viscere della montagna, estraendo il famoso “Bianco delle Alpi”, il talco più puro al mondo. E c’è il mistero della vita che, anche nei luoghi più remoti, continua a generare bellezza.
Un libro da leggere ascoltando anche il disco Lêve les yeux, nato dallo stesso desiderio di Valeria Tron: restituire memoria e voce a suo padre e a una comunità intera.
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