Quando pensiamo alle Alpi, pensiamo in verticale. Dalla pianura, osserviamo le vette immaginando ascensioni e scalate per conquistarle; dall’alto di esse godiamo del prestigio del successo ottenuto, dopo aver superato limiti e ostacoli. L’asse verticale è la prospettiva dominante che ha accompagnato le terre alte fin dal XVII secolo. Tuttavia, la verticalità della montagna è un concetto ben più ampio e complesso, che racchiude non solo le pratiche sportive ma anche sistemi insediativi e culturali, e, attualmente, anche nuove visioni e concezioni.
Nella concezione moderna, figlia dell’Illuminismo e delle prime ascensioni sulle Alpi, la verticalità è stata considerata un ostacolo, un limite da superare e conquistare. Da questa concezione è nata tutta la “filosofia” legata alla sfida, non solo con l’ambiente naturale ma anche, e soprattutto, con se stessi: raggiungere una vetta è simbolo di successo e realizzazione personale, metafora della vita stessa. Ecco quindi nascere, tra Ottocento e Novecento, l’immaginario tipicamente borghese legato all’eroismo. Una narrazione che ha gradualmente trasformato uno stato di eccezione in una mera esibizione della prestazione fine a se stessa.
Questa visione della montagna à frutto di uno sguardo esterno, proveniente dalla città, dalla pianura, che non tiene conto della storia e della complessità delle terre alte, le Alpi in particolare (ne ho parlato sul blog in più articoli, dalla “montagna incontaminata” agli stereotipi ad essa legata). Storicamente, infatti, la verticalità della montagna è stata certamente un limite e ha rappresentato una sfida, ma è anche stata una risorsa per i montanari che l’hanno abitata e plasmata. Non un ostacolo, quindi, ma una geometria ampiamente sfruttata dai suoi abitanti.
Il concetto di verticalità racchiude il paesaggio, da intendersi come un sistema composto da relazioni di natura ambientale e sociale. Il paesaggio di montagna è quindi il risultato della compresenza di elementi antropici e naturali, che nel corso dei secoli si sono intrecciati indissolubilmente. L’essere umano si è adattato alle geometrie verticali del territorio montano, adattandolo alle proprie esigenze, ma anche adattandosi alle sue conformazioni. Le attività agro-pastorali ne sono un esempio: i terrazzamenti hanno permesso di coltivare su pendii assolati, mentre la pastorizia ha contribuito significativamente alla rete di sentieri e mulattiere che collegavano i borghi alle alte quote, dove si trovavano gli alpeggi, ovvero i pascoli estivi.
Oggi ancora percorriamo molti di questi sentieri, tracciati non per sete di conquista ma per sopravvivenza. E fortunatamente, ancora buona parte di essi vengono percorsi dagli allevatori con i loro animali, che d’estate ci “regalano” quei paesaggi da cartolina di alta quota. Oltre a essere elementi caratterizzati della montagna, l’uso del pascolo e il mantenimento dei prati stabili (ovvero prati che non hanno subito pratiche di dissodamento e lasciati a vegetazione spontanea) rappresentano un equilibrio tra uomo, animali e ambiente: rifugio per la biodiversità, benessere animale, ridotto intervento dell’uomo, difesa contro i disastri idrogeologici.
Ecco dunque che percorrere i sentieri, sia di alta sia di bassa quota, può rappresentare un’occasione per ripensare la verticalità della montagna. Non più linea retta verso la cima, ma obliqua, a volte curva e tortuosa, per darci il tempo di osservare e capire. I tempi attuali ci impongono un cambio di rotta, una frequentazione della montagna più ecosostenibile e attenta all’ambiente che stiamo attraversando. Ritmi più lenti, slegati dai concetti di superamento dei limiti e della conquista, non solo ci permettono di entrare in contatto con il territorio e i suoi abitanti ma anche di recuperare una più profonda dimensione personale. E forse questa è la vera sfida da affrontare.
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