Non sono una grande amante della letteratura di viaggio, credo che quei pochissimi volumi che ho letto si possano contare sulle dita di una mano. Girovagando per librerie qualche mese fa ho però incontrato il libro di Erika Fatland La vita in alto. Una stagione sull’Himalaya. Letteratura di viaggio sì, ma nelle terre alte, anzi altissime. Così la mia curiosità si è accesa e l’ho acquistato.
Erika Fatland è una giornalista e scrittrice norvegese. Laureata in antropologia sociale, è una grande viaggiatrice. Nel 2014 è stato pubblicato Sovietistan (tradotto pubblicato in Italia nel 2017), il racconto del suo viaggio negli stati post-sovietici dell’Asia centrale, mentre nel 2017 La frontiera (tradotto pubblicato in Italia nel 2019), in cui racconta il suo viaggio intorno alla Russia, dalla Corea del Nord fino alla Novergia.
È invece del 2021 La vita in alto, edito in Italia da Marsilio, in cui racconta il suo lungo viaggio sull’Himalaya attraverso cinque stati molto diversi tra loro per lingue, religioni, culture e tradizioni. Partendo dalla città cinese di Kashgar, descritta da Marco Polo ne Il Milione, nella provincia autonoma dello Xinjiang, Erika Fatland attraversa il Pakistan, l’India, il Buthan, il Nepal e il Tibet, per poi tornare in Cina.
Se la narrativa che ruota intorno all’Himalaya ci ha abituati a storie di imprese e scalate oppure a racconti di ricerca spirituale e di una più profonda dimensione personale, questo libro ribalta completamente la prospettiva. L’autrice ci porta a conoscere i tanti popoli che abitano in quelle regioni e la storia all’origine dei conflitti che ancora oggi insanguinano quei territori e di cui sappiamo ben poco.
[…]I viaggiatori occidentali […] ancora oggi sono attratti dall’Oriente e dall’Himalaya in cerca di pace, armonia e stimoli spirituali, che credono di non poter trovare a casa propria. La letteratura sull’Himalaya si suddivide, grosso modo, ancora in due filoni: può trattare una sfida avventurosa alla conquista di una vetta, oppure di una sfida alla conquista delle vette e della profondità dell’anima, quasi sempre di chi scrive.
Nelle parole di Erika Fatland ci sono uomini e donne che incontra durante il suo viaggio, persone comuni, guide, agenti di frontiera, re e principesse, monaci. Nella sua scrittura emerge chiaramente la sua rigorosa formazione di antropologa: osserva, descrive e racconta culture, religioni, tradizioni, abitudini e condizioni spesso proibitive in cui vivono molte popolazioni. Il suo sguardo è lucido e attento, critico ma mai giudicante. Tante storie diverse, spesso sconosciute, trascurate o rimosse, che riflettono la complessità di queste regioni dalla natura impervia.
Nelle pagine del libro si aprono e si svelano davanti a noi territori in sospeso fra tradizione e modernità, violenza e spiritualità, miseria e potenze economiche emergenti. Nel racconto, la geopolitica si intreccia alla storie e alla vita quotidiana delle persone che incontra in contesti e situazioni sempre diversi. La scrittura di Erika Fatland è di ampio respiro, e sebbene il libro sia molto lungo e corposo la lettura risulta sempre piacevole, mai sdolcinata eppure capace di momenti di lirismo e riflessione.
La cortina di nubi che aveva nascosto le montagne fin dal nostro arrivo si era appena dischiusa. […] Dritto davanti a noi si stagliavano il Golden Peak e il Rakaposhi, che con i suoi 7788 metri è la vetta più alta della regione. Il panorama era impareggiabile, sublime, grandioso, non sarebbe bastato un dizionario a descriverlo. […] Ci sono due cose che rimpiango del mio viaggio sull’Himalaya, e una di queste è di non essermi fermata più a lungo nello Hunza.
Noi lettori siamo trasportati in mondi a noi lontanissimi e spesso preclusi. Erika Fatland ci racconta soprattutto di donne, concedendoci di aprire il nostro sguardo su usi e tradizioni che per noi oggi sembrano assurde storie di fantascienza (ma in fondo anche per noi “moderni occidentali” non era poi tanto diverso fino a qualche decennio fa).
Il bagno di casa possono usarlo solo gli uomini e i bambini […] Noi donne dobbiamo scendere al fiume.” “Come mai?”, le chiesi e lei: “È una regola antica, deve avere a che fare con la nostra religione, suppongo. D’estate non è un problema, ma d’inverno è peggio, perché dobbiamo portarci l’acqua calda da casa.
Persone, ma anche confini spesso contesi. Otto mesi fra valli, altitudini vertiginose, villaggi e monasteri passando attraverso numerose frontiere. Luoghi di controllo, di interminabili trafile burocratiche, di tensione e violenza. Un continuo mutare di equilibri fragili, come quello che caratterizza la natura di queste regioni. Quelle che a prima vista sembrano montagne eterne e immutabili, subiscono l’effetto del movimento delle placche tettoniche, dell’erosione dell’acqua e del vento, e, non ultimo, del cambiamento climatico che scoglie le nevi perenni e i ghiacciai.
“Tutto cambia, sempre.”
Erika Fatland, La vita in alto. Una stagione sull’Himalaya, Marsilio, Venezia, 2021, pp. 688.
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