La primavera è iniziata, il paesaggio si sta pian piano colorando di verde e le prime fioriture stanno sbocciando in prati e giardini. Ci siamo lasciati alle spalle le giornate corte e la stagione fredda, ma di inverno non si può tanto parlare: appena alziamo lo sguardo, si notano subito montagne spoglie di neve, così come fiumi, laghi e torrenti ben al di sotto del livello medio del periodo. Il 2022 è stato infatti l’anno più caldo e secco in oltre due secoli in Italia e il 2023 non promette nulla di diverso: impossibile quindi separare il grave problema della siccità dal turismo invernale.
Di questa importante questione se ne occupa il rapporto di Legambiente “Nevediversa 2023. Il turismo invernale nell’era della crisi climatica”. Il dossier riporta un interessante studio sulla situazione attuale del turismo invernale in montagna, presentando numerosi dati riguardanti l’innevamento artificiale, i bacini idrici e gli impianti sciistici.
Turismo invernale, infatti, è sinonimo di sci e impianti di risalita. Come sottolineano Maurizio Dematteis e Michele Nardelli nel libro Inverno liquido. La crisi climatica, le terre alte e la fine della stagione dello sci di massa (2023), dal secondo dopoguerra l’industria dello sci ha cambiato radicalmente il volto delle terre alte, trasferendo una dimensione urbana in contesti delicati e fragili come quelli montani e soppiantando le economie tradizionali. Un’industria monoculturale che ha reso la montagna dipendente da un modello che ha grossi limiti.
La siccità crescente sulle nostre montagne sta avendo e avrà un impatto molto pesante sulle stazioni sciistiche. L’incremento delle temperature e la diminuzione delle precipitazioni nevose, infatti, comporta una dipendenza sempre maggiore dalla neve artificiale: secondo i dati riportati dal dossier di Legambiente, in Italia la percentuale di piste innevate artificialmente è del 90%, la più alta in Europa.
Gli effetti ecologici degli impianti di innevamento sono molteplici: occorre considerare l’impatto delle opere edili e delle infrastrutture, la sottrazione di risorse idriche, l’impatto paesaggistico, la luce e il rumore generati e fonte di disturbo per gli animali, un maggiore congelamento del suolo che impedisce il passaggio di ossigeno causato dal peso maggiore e dall’alto contenuto di acqua liquida della neve artificiale, l’aumento del consumo di energia per la sua produzione.
Alcuni studi prevedono che nelle Alpi la domanda di acqua per l’innevamento crescerà dal 50% al 110%. Un fabbisogno che entrerà pesantemente in competizione con gli altri usi idrici, quali il settore idroelettrico, l’agricoltura, gli usi domestici e il turismo.
Quale futuro, dunque, per il turismo invernale in montagna? I dati riportati da Legambiente parlano chiaro: in Italia, nel 2023, aumentano gli impianti dismessi (249), quelli temporaneamente chiusi (138) e quelli che sopravvivono solo grazie a forti investimenti di denaro pubblico (181). A fronte di questi numeri, risulta evidente come sia necessario trovare altre forme di sviluppo e frequentazione.
Negli ultimi anni si sta assistendo a una crescita di una fruizione “no-crowds”, ovvero un turismo che predilige l’escursionismo o attività all’aperto in aree di grande naturalità e prive di infrastrutture. Se i dati di questa modalità di frequentazione non sono sempre quantificabili in termini numerici, assistiamo però al successo di alcune località che hanno scelto di sviluppare un turismo lento e sostenibile, quali la Valle Maria in Piemonte o la Valpelline in Val d’Aosta. Valli che non hanno impianti di risalita né eliski, eppure con presenze invernali in crescente aumento.
In un contesto così fragile e in rapido mutamento, è necessario vivere la montagna con rispetto. Soprattutto occorre sperimentare e sviluppare approcci diversi, eliminando così la dipendenza dalla monocoltura industriale dello sci e creando un nuovo turismo invernale, più sano, responsabile e sostenibile.
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