I conti in sospeso si chiudono sempre.
Un anno fa mi ero trovata a percorrere il sentiero verso il Taou Blanc, nel Parco Nazionale del Gran Paradiso. Era una mattina di fine settembre e la notte precedente le cime che abbracciano i piani del Nivolet erano state ricoperte da un velo leggero di neve. Arrivata al Col Leynir ricordo di essermi bloccata, le gambe non ne volevano sapere di muoversi. Nella mia testa, la paura mi mostrava solo il vuoto e rendeva i miei piedi insicuri. Non mi interessava salire in cima, preferivo godermi in tranquillità la giornata, assaporarne i primi toni autunnali. La montagna, in quel momento, aveva per me un altro significato.
Non l’ho mai considerata una “sconfitta”, ma il pensiero di quella cima è rimasto una questione aperta, per numerosi motivi che esulavano dal suo mero raggiungimento. Ho accarezzato l’idea di tornare per molti mesi, ma ogni cosa ha il suo giusto tempo.
I colori autunnali sono tornati a ricoprire le montagne, testimoni imparziali di infinite storie umane, e ho deciso di riconfrontarmi con quello stesso sentiero, curiosa di scoprire cosa avrebbe svelato di me questa volta.
I passi erano sicuri. Della persona che ero stata, non v’era più traccia alcuna.
Lassù, lo sguardo e l’anima spaziavano liberi, vagando di vetta in vetta, perdendosi nella bellezza delle rocce, dei laghi sottostanti, dei ghiacciai. I prati color cannella risplendevano al sole, caldo contrappunto al blu dell’acqua e del cielo. Tutto mi raccontava storie diverse, nuove.
Le difficoltà di un sentiero, al di là di quelle tecniche, sono quelle che portiamo dentro di noi. Si cammina per raggiungere se stessi, per confrontarsi con la propria umanità.
Si può tentare un percorso infinite volte, non esistono sconfitte, solo storie da scoprire e raccontare. E siamo noi a decidere quando scrivere la parola fine.
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