Montagne della Mente di Robert Macfarlane è il libro che non dovrebbe mancare nella libreria di qualsiasi appassionato di montagna, che siano escursionisti, alpinisti o semplici ammiratori dal divano di casa. È quel libro che quando hai finito di leggere ti rendi conto di aver sempre voluto scrivere, ma che qualcuno, molto più bravo di te, ti ha preceduto.
Uscito in Gran Bretagna nel 2003 è stato pubblicato per la prima volta in Italia da Mondadori nel 2005 con il titolo Come gli uomini conquistarono le montagne. Nel 2020 è uscita la nuova edizione con Einaudi, con il più appropriato titolo Montagne della Mente. Storia di una passione, con la bella e precisa traduzione di Paola Mazzarelli.
Nel titolo del libro sta tutto il suo contenuto: le montagne non sono altro che una percezione della nostra mente, un prodotto della nostra percezione e della cultura europea. Le montagna altro non sono che il risultato dell’orogenesi, di un lungo e complesso processo geologico e dell’azione dei processi atmosferici. Esistevano prima di noi e continueranno ad esistere anche quando noi ce ne saremo andati. Tutto ciò che noi attribuiamo alle montagne, emozioni, valori, valenze estetiche, qualità (positive e negative) è una nostra invenzione:
Per secoli furono considerate ostacoli inutili, «imponenti protuberanze», come le chiamava, con scarsa considerazione, lo scrittore e critico inglese Samuel Johnson. Oggi sono annoverate tra le meraviglie della natura e c’è gente disposta a morire per amor loro. Ciò che chiamiamo «montagna» è dunque una collaborazione tra certe forme del mondo fisico e la nostra immaginazione: una montagna della mente. E il modo in cui ci comportiamo verso le montagne ha poco o nulla a che fare con le strutture di roccia e di ghiaccio che le costituiscono.
L’autore ci porta in un viaggio nella storia letteraria, culturale e geologica della montagna a cui alterna elementi della sua esperienza personale, raccontando però solo ciò che vale davvero la pena senza mai perdersi in inutili narcisismi. Il suo stile fluido e l’ironia che pervade il racconto lo tengono alla larga dalla retorica o da gravose (e aggiungerei fastidiose) riflessioni sul senso della vita.
Il viaggio di Macfarlane inizia con le montagne come luoghi da temere, luoghi non solo di pericolo fisico, di tempeste selvagge e valanghe, ma anche popolati da persone violente e selvagge, comprese streghe e figure soprannaturali. Un cambiamento graduale avviene a partire dal 1600, quando i primi geologi e cacciatori di fossili iniziano a considerare le montagne come laboratori in cui esplorare e spiegare il mondo in cui vivono senza affidarsi al mito e alla magia.
Seguendo le orme degli scienziati, ecco arrivare artisti e scrittori come Coleridge, Shelley, Byron e Ruskin, che iniziarono a creare l’immagine romantica delle montagne che da allora è rimasta legata ad esse. Salire in montagna divenne una ricerca del sublime, di esperienze elevate che i paesaggi alpini stimolavano. Mentre le città crescevano rapidamente, sotto la spinta della rivoluzione industriale e della crescita demografica che l’accompagnava, le montagne rappresentavano una via di fuga dai rumori, dagli odori, dall’aria inquinata e dalla noiosa routine di questo nuovo mondo urbano.
Per molti frequentatori ottocenteschi delle montagne, dunque, la loro attività ero poco più che un gioco di ruolo. Le montagne fornivano un regno mitico, un mondo alternativo in cui ci si poteva reinventare nei panni che si preferivano. Erano un «terreno di gioco», come Leslie Stephen chiamava le Alpi, in cui uomini adulti potevano giocare al pericolo: un luogo di ricreazione, ma anche di ri-creazione del sé.
Non ci volle molto perché le montagne diventassero un parco giochi per avventurosi ed eccentrici: scalare le vette divenne un distintivo di virilità e coraggio, oltre a fornire storie che gli imprenditori potevano vendere. Mentre le Alpi si affollavano, i più avventurosi si spinsero a viaggiare più lontano, dove la mappa era ancora vuota e le montagne senza nome, almeno per gli esploratori europei.
L’immaginario romantico delle terre alte ha fortemente influenzato esplorazioni e spedizioni. È esemplare la storia di George Mallory e la sua ossessione per la scalata all’Everest. Un lungo capitolo ne racconta le vicende, cerca di trovare una risposta a una domanda a cui Mallory non sapeva rispondere, a una passione che si trasformò in ossessione, fino a portarlo alla morte su quella montagna tanto agognata. Leggendo frammenti dei resoconti delle spedizione e delle lettere di Mallory alla moglie scopriamo un animo entusiasta, un uomo incantato dai paesaggi e perdutamente innamorato di una vetta.
Pur rappresentando un caso estremo, la morte di Mallory perpetua il mito, amplifica il fascino delle montagne e ne rafforza il potere di attrazione. Leggendo storie di alpinismo contemporanee possiamo ritrovare quelli stessi elementi retorici che pervadevano i racconti di fine Ottocento e inizio Novecento. Una vertigine della vetta che tutti noi appassionati, almeno una volta abbiamo provato o sognato di provare.
La montagna sembra rispondere al crescente bisogno di spazi dell’immaginazione che assilla il mondo occidentale. Per molti è oggetto di desiderio e fonte di consolazione. Sostanzialmente, come ogni altro paesaggio naturale, la montagna mina in noi la compiaciuta convinzione – in cui è tanto facile cadere – che il mondo sia fatto dall’uomo per l’uomo.
Di Macfarlane consiglio di leggere inoltre la prefazione a La montagna vivente di Nan Shepherd, un libro dedicato al gruppo montuoso dei Cairngorm. Con grande empatia e amore per quei luoghi , in cui i suoi nonni vivevano, Macfarlane ci introduce al libro che meglio di ogni altro ha saputo raccontare l’essenza di quei monti.
Robert Macfarlane, Montagne della mente. Storia di una passione, Einaudi, 2020, pp. 288.
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